Lettera al Ministro Salvini
Quando i gesti, fanno scuola. Il caso della nave Diciotti, lettera aperta di
una professoressa
Quando penso al
mio lavoro, non posso che riflettere su uno scambio di energie: lo
sforzo di crescere e quello di formare. La scuola cerca di congiungere
le famiglie alla classe, il particolare, al generale; ogni giorno
ciascun docente offre metodi e discipline nel tentativo di accendere una
luce negli sguardi dei suoi studenti. Tenta di far valere i principi del
prisma e dell’arcobaleno. La scuola non crea nient’altro che una
comunità, dove uguaglianza, inclusione, collaborazione sono le Muse
ispiratrici.
Nella comunità il
singolo ascolta per essere ascoltato, aiuta per essere aiutato. La
classe, per certi versi, è un’incubatrice della società.
Il problema si pone con la crepa, la
scollatura che tende ad aggravarsi nel nostro quotidiano, nelle
informazioni, nella vita reale. Esistono due modelli di una società in
palese conflitto con se stessa. Esiste anche una società
dell’indifferenza, si pensi al caso della nave della marina militare
italiana trattata da clandestina, la nave Diciotti, costretta a tenere i
motori accesi con il divieto di attracco nel proprio paese. Portava
migranti, portava uomini, tra loro donne, bambini scarnificati dalla
fame e dalla privazione, perché il nuovo olocausto si consuma qui, nel
Mediterraneo, anche dietro l’orgoglio di pensare anzitutto agli
italiani. In questo modo viene negato il secondo principio
dell’esistenza, dopo il primo che è l’istinto dell’uomo ad aggrapparsi
alla vita, il secondo è cercare di soccorrere qualcun altro che potrebbe
perdere quello stesso l’appiglio. Violando questo secondo principio non
si risolve l’annoso problema delle disuguaglianze sociali, della fuga da
paesi inospitali e in guerra, si crea solo il fondamento di una lezione:
il migrante è diverso da noi. E i sottintesi sono allarmanti, giusto per
ricordare, con le gerarchie dei popoli abbiamo prodotto il Fascismo e la
partecipazione esaltata alla Shoah. Che differenza c’è tra l’etichetta
di
ebreo o
quella di
migrante?
Aleggia uno stesso disprezzo e aleggia lo stato d’animo dello spettatore
che benedice di non essere lui la vittima del naufragio.
La politica stessa crea confusione, è il caso
del Ministro degli Interni che posta sui social la testimonianza di una
sua sfida alle istituzioni dello stato. Il rappresentate che schernisce
gli stessi organi che rappresenta, sembra una contraddizione di termini,
un comportamento politico pericoloso, assieme alle accuse ai giudici
comunisti. Nell’ufficio del
proprio ministero, il Ministro Salvini è ripreso a irridere la Procura
di Palermo per le indagini preliminari tese a verificare la legalità del
sequestro della nave Diciotti. La polemica chiude con l’avviso di
garanzia letto, commentato e appeso da Salvini al muro del proprio
ufficio di Ministro. Il gesto supera qualsiasi immaginazione e richiama
una domanda. Può essere così irriverente una delle prime cariche dello
stato? No, perché la ricaduta di un gesto pubblico arriva alle persone,
si amplifica, suscita ispirazione. Nello stesso ruolo un genitore, un
educatore e un insegnante conoscono bene il principio della coerenza,
quando si insegna un precetto la prova del nove è la corrispondenza tra
le parole e le azioni. Se il cattivo esempio arriva dalla mossa politica
di chi, per il ruolo che riveste, è libero di parlare alle telecamere di
tutti i media italiani, non si corre il rischio di indebolire la scuola?
Nell’adolescente l’idea di adulto si forma per imitazione, per
osservazione, per simpatia. Verso quale grado di civiltà ci stiamo
spingendo? Non sono più di casa la compostezza, le argomentazioni, il
confronto? Fosse pure lo stile?
Naturalmente la
tessitura dei vari fili educativi si compie in tanta parte a scuola, un
insegnante usa metodi antichi, chiede di scrivere per pensare, di
ascoltare per imparare la dialettica. Chiede di capire il peso delle
parole e invita ad avere pazienza, a coltivare passioni. Che strana
categoria sono gli insegnati! Per il loro lavoro, come la magistratura
di Palermo, sono spesso criticati di comunismo. Oserei dire che la base
della nostra società sia più lontana, nei principi della Grecia
classica. Resta da chiedersi: allora la cultura greca era anch’essa
comunista, se faceva il possibile per creare dei cittadini? Se si
sforzava di non alimentare un popolo che odia chi non ne fa parte? Che
grida costantemente al nemico?
Claudia Maga,
docente di Lettere, Scuola Secondaria di Primo Grado, Iqbal Masih,
Milano.
Quanto vale la parola di una donna?
Quando ci si
accosta alla questione della violazione del corpo delle donne, si cade
spesso in un problema spinoso. Amaro e tragico contemporaneamente. Lo
stupro è un reato che sta indubbiamente mettendo il coltello nella
ferita dei nostri credi, di fatto lo stupro ci lascia nel dilemma, al
bivio tra verità e bugia. Insomma, nei dintorni di un rifiuto etico,
condiviso, da analizzare con calma.
Una
donna stuprata o una ragazza stuprata sono ugualmente vittime, si tratta
di persone che hanno, forse, consapevolezze diverse di quanto è accaduto
loro, mentre questo accadeva, ma sono entrambe delle coscienze colpite
da un’offesa profonda. Il trauma dell’evento X che ha ricadute sociali,
psicologiche e morali non misurabili. Dove, risposte differenti possono
provocare danni pervasivi alla personalità.
Lo stupro cambia
la vittima, con questo atto ci si appropria della sessualità della
donna, fino a renderla un oggetto passivo, teso a sbrigare la carica
sessuale del maschio o dei maschi. Finisce così che la vittima sia
prosciugata da un consenso che non c’è. E nella brutalità prende corso
una dinamica sessuale violenta e animale, in cui la donna esce
disorientata, in conflitto con una colpa che le appesantisce l’anima di
un quid inesprimibile. Una macchia grava nelle donne stuprate è il senso
di colpa, la rassegnazione, l’offesa, la rabbia.
Ora,
lo stupro a una prostituta, a un medico, a un ingegnere, a un’impiegata,
a una moglie, non è meno abbietto dello stupro verso un’adolescente o
una bambina. Certamente un soggetto indifeso è più vulnerabile per la
sua giovane età, ma un’anima divelta dalla violenza si somiglia sempre,
si chiude nello stesso silenzio, prova la stessa vergogna, versa lacrime
simili. Perché allora il centro delle nostre riflessioni resta ancora il
maschio? Lo stupratore? Il gruppo degli stupratori? Perché per la
seconda volta si commette una violazione, anche solo intellettuale,
delle vittime?
Non ci
dovrebbero essere vittime divise per caste, un rifiuto resta un rifiuto,
sia che lo pronunci una prostituta, un medico, un ingegnere,
un’impiegata, una moglie, un’adolescente, una bambina. La fermezza di un
no è ugualmente no. Anche se quelle donne si fossero sovraesposte, in
una relazione con l’individuo sbagliato o con il gruppo sbagliato,
questo non conta nulla. La sovraesposizione potrebbe essere la risposta
a un saluto, un giro notturno per una strada secondaria, l’appuntamento
con l’amico che ha preparato un tranello, il litigio con il proprio
marito, l’attenzione di un estraneo sui social network e altro ancora,
ma questo rientra nei rischi generali che ciascun individuo si prende
nell’essere se stesso, nel nostro tempo. E il nostro è per fortuna un
tempo che non delimita la donna nella sua libera e consapevole
espressione di sé. Ciascuna ha un proprio gusto nel portamento, nei
vestiti che indossa, nei modi, ma soprattutto nei pensieri che abitano
la sua specifica bellezza. Nessuna donna ricerca a braccia aperte un
trauma capace di dilaniarla.
E
tutto sommato, nel sentire le discussioni mediatiche sul tema si rischia
di uscire disorientati. Era il 10 maggio 2017, quando Debora
Serracchiani, come presidente del Pd in Friuli Venezia Giulia ha
dichiarato: “La
violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma più
inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza”.
Nello specifico alludeva alla circostanza dello stupro di una minorenne
a Trieste, per opera di un uomo iracheno, richiedente asilo in Italia. E
ancora, era il 3 luglio 2017, quando con la sua dichiarazione il sindaco
di Pimonte, in provincia di Napoli, ha definito “una bambinata”
l’insistere della violenza di un branco di 12 maschi, guidato dal
fidanzatino della ragazza, a danno di una minorenne. La vittima ha avuto
il coraggio di denunciare. Tutto per vedere di lì a poco tornare in
libertà i propri carnefici affidati, tranne il più piccolo di 14 anni, a
una comunità di recupero.
Sebbene
i casi siano diversi la situazione retorica ci pone due vittime che
meritano la giusta attenzione e la corretta dignità. Un uomo che abusa
di una bambina, anche se straniero, sa, perché viene istruito in merito,
nei centri d’accoglienza, che quello è un reato, nel nostro paese. Idem,
dei ragazzini che abusano in branco, con una cattiveria ricorsiva e
ripetuta per dodici individui, più volte e più volte ancora, sono in
grado di riconoscere che il loro comportamento non è accettabile.
Oltrepassa ogni senso del gioco. Allora la questione è mal posta se noi
puntiamo il dito sul reato dell’uomo iracheno e tendiamo la mano al
branco, strizzando l’occhio a un eccesso di virilità bambina.
A che
punto della storia, qualcuno si farà carico del trauma di queste due
minorenni: una violata da un estraneo, l’altra soggiogata dal
fidanzatino e dal branco? Queste erano ragazze e la loro storia è più
raccapricciante, ma potevano essere donne, mogli, medici, ingeneri,
prostitute, ecc. Comunque sia, è stata rubata loro l’anima femminile, da
chi le ha forzate a un rapporto intimo, sbrigato nella barbarie e
punibile penalmente. E dovremmo chiederci se, prima di prendere le parti
per le storie singole degli stupratori, la giustizia abbia assicurato la
sanzione e la certezza della pena a questi maschi, che sapevano, anche
nel caso dei ragazzini, che stavano brutalizzando una bambina.
Questi
maschi hanno la loro storia, hanno dei giustificativi, il disagio
sociale del migrante, le frustrazioni del migrante, oppure, nell’altro
caso, la noia del branco. Oso pensare che siamo in uno stato che a volte
è stato incline al paradosso giudiziario, dove la difesa scardinava
anche la prova più schiacciante dell’imputato, a patto di trovare
abilmente l’anello che non tiene, si finiva per creare un pensiero
relativo. E quindi il reato, archiviato, indebolito, sottratto alla
certezza della pena, trascinava la vittima in una logica di ribaltamenti
processuali. La spirale relativista e il pensiero: “sta
mentendo, era consenziente, se l’è cercata…”
Non
traccerei un confine tra italiani e stranieri, il nostro è un paese che
affronta eroicamente il problema dei migranti, ma non lo risolve del
tutto. Un richiedente asilo, riconosciuto lo status di rifugiato, è in
un limbo, dall’oggi al domani deve trovare un canale di ambientamento,
una compensazione alle proprie distanze culturali, una stabilizzazione.
Con un abracadabra deve avere una casa, un lavoro, un suo posto nel
mondo. Consideriamo anche che un italiano, seppur inserito nel tessuto
sociale possa avere altri problemi, altre cicatrici. Un maschio che
commette una violenza, mostra un disagio nella sua relazione con le
donne, ma questo deve interessare di meno del disagio che prova la
vittima. In un sottobosco di maschilismo dobbiamo decentrare
l’attenzione sullo stupratore, perché lo stupratore non vada
giustificato. Se lo si fa, vince il relativismo e la donna è sconfitta,
non perché è stata stuprata da un migrante, ma perché la sua femminilità
ferita non vale abbastanza. E la sua dignità non vale abbastanza. Non si
prova a capire il peso che porta dentro. La simpatia goliardica cade
ancora psicologicamente verso l’universo delle pulsioni maschili.
Ricordo quel tempo
non troppo lontano in cui quando una donna diceva “no”
era inteso che volesse dire un “si”.
Il femminicidio? Una colpa
metafisica?
Il filosofo Karl Jasper analizza una
questione sensibile quando si pone nell’ottica di dividere il concetto
di colpa in tre sotto-sezioni più analitiche, che precisano le
ramificazioni del caso. Lui ne parla in rapporto al nazismo, qui
l’argomento altrettanto scottante si conferma il femminicidio. Per
analogia, traslando il piano delle tre sotto-sezioni, si può definire,
una
colpa politica,
quella che ha portato a tollerare le disparità di genere e, il passo
breve: la spaventosa diffusione dei delitti contro le donne. Tutto ciò
viene da lontano, dal retaggio maschile e dal modo in cui il maschio è
educato al privilegio del comando, politicamente, socialmente,
filosoficamente. D’altra parte si assiste anche alla
colpa
morale, quel sorriso lezioso, quel
cameratismo, il gusto dubbio che porta a indugiare sul corpo delle
donne, per valutare usi e abusi della loro bellezza. Quando la donna è
oggetto e strumento a disposizione, che risponde o a un comando preciso
o a una retribuzione precisa, nella dequalifica della persona, al pari
di una merce da vendere. Per altri versi esiste la
colpa
metafisica, una zona dantesca
dell’animo umano: il fardello dell’ignavia, per intendere l’indifferenza
di aver assistito ma non aver pensato di esprimere un dissenso, né,
tantomeno, un’azione contro.
Il grosso rischio del nostro tempo è il senso
di una
colpa metafisica
nei riguardi del femminicidio. La cronaca non smette di essere il campo
di battaglia quotidiano, dove famiglie risolvono le ostilità coniugali
con una violenza alimentata da soprusi psicologici, pronta ad affinarsi,
a pianificare, a coltivare l’insensibilità morale, fino all’estremo. Il
baratro che ha come epilogo possibile il delitto, il silenzio,
naturalmente, di nuovo, la colpa, ebbene, una colpa giuridica,
criminale a tutti gli effetti. Le
considerazioni da fare sono complesse, si alimentano di un immaginario
che spesso svilisce il ruolo della donna e crea cliché innaturali, primo
fra tutti quello della donna assertiva. Nella televisione italiana le
donne sono per lo più giovani, attraenti, ma soprattutto, protesi e
pezzi decorativi dello spettacolo. Lo dimostrano inquadrature che
seguono lo sguardo dell’uomo, esitano sull’anatomia e sorridono ai
piccoli ammiccamenti maliziosi in cui il copione di scena, tra la parte
maschile e quella femminile, simula una seduzione ben nota. L’equivoco
di essere galante, dilata moralmente il possibile, fino a passare
all’allusione più rude e goliardica delle battute maschiliste di Trump,
come si sorrideva già alle barzellette piccanti di Berlusconi.
Un’autorità insignita di rappresentare un
collettivo, quello dei votanti e, un paese, quello dell’esito
democratico delle votazioni, diventa voce di stato burlesca, che
chiacchiera sulle donne come se fosse davanti a una cena di commilitoni
e non all’amplificatore mondiale dei media. Va da sé che i mass media,
nel rispecchiarsi in questa dilatazione morale, giochino la carta
satirica con titoli, vignette, slogan che passano alla collettività
troppi
divertissement
maschili, giustificati come la condizione di una parità che non
risparmia le donne. La ragione è tutt’altra, perché la donna viene
derisa attraverso il suo corpo e le allusioni al corpo diventano
“epitaffio” di quella donna. “La patata bollente” prima pagina di
Libero,
riferito a Virginia Raggi o “Ciao, ciao culona” riferito ad Angela
Merkel prima pagina del
Giornale,
sono tristi esempi di come un’etichetta trasformi in una soluzione
sbrigativa tutta l’interiorità della donna in questione.
La donna non è nemmeno, secondo un altro
eccellente cliché, la regina della casa, idea che domina incontrastata
nella pubblicità, come nelle fiabe da Cenerentola a Biancaneve, passando
per la Bella addormentata nel bosco. In questi esempi la donna si
risolve nella casalinga perfetta che sublima il senso della propria
vita, facendo risplendere gli ambienti di un pulito asettico e
brillante. È la donna che si realizza per il pronto intervento del
Principe che viene da un mondo libero, di avventure, di possibilità, di
competizione. Una donna che attende di indossare la scarpa di cristallo,
quella che aspetta il bacio salvifico del benefattore maschio. Eppure la
donna ha invece delle responsabilità sociali, di cui spesso si tace, sia
come madre, sia come insegnante, in un sistema educativo, in cui di
preferenza, la manovalanza è femminile. Quando la donna è in prima linea
si trova a lottare controcorrente, a opporsi a regole che continuano a
pensare al maschile. Del resto, si declinano al maschile le parole e le
conseguenze delle parole, soprattutto i vecchi stereotipi: “Chi dice
donna, dice danno”; “Auguri, figli maschi”; “È l’uomo che porta a casa i
soldi”; “Basta sposare un uomo ricco”, ma ce ne sono infiniti. Gli
stereotipi creano, a loro volta, dei limiti, dei perimetri di azione che
solo le donne più forti riescono a sfondare. Per riuscire a capire i
passaggi profondi della
colpa metafisica
nel femminicidio, occorre addentrarsi in uno studio di mentalità, in un
processo di svuotamento, di retromarcia rispetto alla politica dei
diritti. In Italia, il femminismo ha raggiunto il voto per le donne nel
1945, la legge sul divorzio del 1970, il diritto di famiglia del 1975,
la legge sull’aborto del 1978, la legge sul delitto d’onore del 1981.
Ora però, una retromarcia imprigiona la donna
dentro un’equazione, un sì, la casa, la devozione al maschio e il
completo possesso dell’uomo. “Doveva essere solo mia…” molti mariti,
compagni, assassini delle proprie partner hanno esemplificato così la
loro ossessione. Un’idea di donna che nasce da molti malintesi, il
malinteso della televisione che veicola la convenzione della donna
sciocca, vuota di contenuti, capace di brillare solo di una luce
maschile, oppure l’idea della donna potente, o che ha giocato un ruolo
nell’educazione di quell’uomo, ma che si può facilmente corrodere in un
stereotipo che l’annienta: “La culona”; oppure l’idea della donna-madre
che accoglie il figlio-partner a oltranza, offrendogli un amore senza
condizioni.
Peccato che la storia delle donne abbia cambiato
la mentalità delle donne stesse, molto più velocemente dei rassicuranti
retaggi maschili, in cui l’uomo assassino vuole ricondurre a forza la
propria fidanzata, la propria moglie o compagna, perfino la propria
figlia, in una stretta che è il braccio di ferro personale.
Le donne contemporanee e le donne che hanno
fatto la storia delle donne, hanno puntato di più sulla loro istruzione,
hanno costruito in una stanza tutta per sé, un’interiorità solida,
impertinente, ma utile a raggiungere traguardi equivalenti alle carriere
degli uomini. Accanto a queste donne che hanno preso spazio, una
ricerca, un posto d’onore, fosse nella letteratura, nella cultura,
nell’arte, nella politica, ci sono, poi, le altre, le donne che sono
state nei confini del loro limite d’azione, donne che hanno espresso se
stesse nell’illusione del corpo, nella divinizzazione estetica del loro
potenziale seduttivo. Donne che hanno giocato alla plastilina umana e si
sono lasciate plasmare dall’idea che un corpo bello confermasse un’anima
bella, dall’idea che la vecchiaia fosse prorogabile anche al prezzo di
snaturarsi, di diventare, per un momento, il proprio fantasma.
La
colpa metafisica
di fronte al femminicidio si può isolare e combattere non cedendo agli
ammiccamenti sessisti, prendendo la taglia esatta del nuovo ruolo
sociale della donna, una donna che studia, lavora, accudisce i figli, ma
che soprattutto ha una personalità da esprimere, una donna che quando
dice no intende, precisamente, un no. Una donna che viaggia, che sa
stare vicino, ma che può partire, ricercare, a suo modo, il diritto
della persona alla felicità. Una donna che prima di volersi icona e
blasone da sfoggiare in una parata, chiede all’uomo un confronto tra
pari, un nuovo modo per ridisegnare la famiglia, dove la responsabilità
diventa plurale, dove non vince la forza, ma il dialogo e la
comprensione, dove si matura per il valore e per l’empatia. Insomma, un
presente in cui il patriarcato sia ormai ridotto in cenere, a favore di
un uomo corresponsabile, complice della donna, nella crescita umana
individuale e della società.
Cos’è la
frontiera?
Il concetto di
frontiera trova ampio spazio nell’attualità, con il persistere dei
flussi migratori nel nostro paese e più in generale in Europa e nel
mondo. L’antropologo Marc Augé, nel suo libro “Nonluoghi”, aiuta a
comprendere la questione, mostrandone l’angolazione etnologica. Seguendo
Augé, si assiste a un complessivo impoverimento del senso di frontiera
con la generale predisposizione a negare la frontiera, in favore di un
mondo comunicante, senza vicoli, né confini tracciabili. Trascurare la
frontiera però significa guardare l’orizzonte da un osservatorio
piuttosto omogeneo, che rischia di appiattire il panorama con
un’immagine spersonalizzata.
Quale
senso ha e perché contiene un valore intrinseco la frontiera? La
frontiera rappresenta una soglia, un luogo da cui transitare nei due
sensi. La frontiera non si esprime nello stabilire una barriera, né
erigendo un muro facendo di un passaggio un vicolo cieco: la frontiera è
un luogo attraversabile, secondo delle regole note. Nel varcare la
frontiera, infatti, un individuo acconsente alle norme di quel valico
nazionale, in conformità delle quali, è portato a esibire quanto
richiesto: una carta d’identità, un visto, un permesso di soggiorno. Chi
entra è tenuto a comunicare, conforme ai codici del paese, sia per
rimanere, sia per attraversare la zona, il tempo stabilito dalla sua
migrazione.
Nel
testo di Augé si parla della spersonalizzazione dei luoghi. Sono
descritti, come nonluoghi, i luoghi neutri, le aree prive di una chiara
identità, quei luoghi incerti, dove regna assoluta la solitudine
moderna. Eppure la frontiera è ancora un luogo e continua a esserlo
perché ha una forma leggibile. La frontiera conserva un valore umano
nell’invitare al passaggio e non certo nell’operazione contraria che
implica la costruzione di barriere o muri di confine. Frontiera,
significa, semmai, sentirsi partecipi a un’identità storica, a una
tradizione rituale e ctonia, a perpetuare lo statuto, un lignaggio
culturale, una lingua, una letteratura, un’educazione. Significa mandare
a memoria, capire l’identità di un luogo, per imparare dal luogo stesso.
La frontiera persiste nelle emozioni di una personalità culturale che ha
potere di rinnovarsi e di preservarsi con la cura dei monumenti, delle
piazze, dei mercati, dei centri del nostro esistere e da cui per altri
versi sentiamo di appartenere. Chi varca la frontiera è chiamato ad
attraversare non solo un territorio nazionale, nella sua esplorazione,
dovrebbe, necessariamente, entrare in empatia con il
genius loci, con lo spirito
del luogo, con le emozioni della comunità.
La
migrazione, il crocevia e la soglia sono connaturati alla storia dei
popoli, i problemi nascono quando, per propagandare l’assenza delle
frontiere, si è disposti a dimenticare, a portare un luogo, una storia,
dei monumenti, a essere un porto franco e poi per effetto domino, a mio
giudizio, un nonluogo. Mi viene in mente il viaggio del presidente
iraniano Hassan Rhoani a Roma, in osservanza del quale lo scorso gennaio
sono stati coperti i nudi dei musei Capitolini. Rhoani ha davvero avuto
percezione dell’Italia? È entrato in comunicazione empatica con la
complessità dell’identità culturale italiana?
Mi
sembra basilare comprendere che la frontiera abbia un senso tanto per
chi la vive e la abita, tanto per chi da essa transita. Se la moderna
migrazione entrerà in empatia con l’idea di frontiera, come idea di
incontro con la comunità, sicuramente la migrazione saprà tessersi al
valore del luogo, a quello della lingua e della mentalità. In questo
senso la migrazione è ampiamente vitale, ricca di uno scambio moderno e
maturo, privo di costrizioni. Diversamente, se il volume migratorio
muove da intenti colonizzatori e di sradicamento, allora perdere il
senso della frontiera potrebbe significare il sacrificio di un luogo,
della sua storia e del suo popolo. Quel passaggio sottile da luogo
portatore di senso verso un luogo destrutturato, meglio, un nonluogo
appunto, un posto generico e alienate, specchio triste della solitudine
contemporanea.
Siamo capaci di odiare?
Questa domanda insanguina in nostro presente. È doloroso ammettere che
l’odio sia indice di una gratificazione brutale, questo sentimento
sembra appagare forme di insoddisfazione, di integrazione mancata, quasi
a dire che l’odio sia una conseguenza diretta di forbici sociali che si
aprono crudelmente. La massa fatica a vivere negli standard che
conosceva, intanto, la ricchezza si orienta verso l’élite, con le sue
frange di benessere e non è difficile respirare gli umori instabili e,
seri, di chi fa i conti con la precarietà. C’è una generale ambizione
resa frustrante per esigenze che non si riesce più a permettersi, con
l’insistere di una crisi economica senza uscita di sicurezza.
Sembra di poter dire che siamo tutti portati a interrogarci su
questa tensione sociale, questo ritorno all’odio, in una modernità, in
cui, come sostiene Günther Anders, non siamo più abituati a odiare.
Ricordo come nella dichiarazione di un sopravvissuto all’attentato del
13 novembre, scorso, al Bataclan, di Parigi, lui sostenesse esattamente
‘non avrete il mio odio’. Il
nostro retroterra sentimentale, la cultura degli affetti, un’empatia per
l’altro e l’attenzione per il mondo animale, ci portano a una visione
antropocentrica che mira alla missione educativa, all’inclusione, ma la
risposta dello straniero può essere molto diversa, dalle premesse che i
nostri gesti si sono prefigurati. L’attentatore afgano, in Germania, era
un diciassettenne tranquillo, dato in affido a una famiglia tedesca.
Credo di nuovo, per seguire Anders, che analizza il problema
dell’odio, in ‘L’odio è
antiquato’, ci sia una chiave di lettura molto interessante,
modificando, assieme al filosofo, il pensiero di Cartesio, in ‘Odio,
dunque, esisto’. Il modo di combattere dei terroristi è estremamente
arcaico, non sono soldati che sparano con una mitragliatrice, da
lontano, senza contatto diretto con i corpi bersaglio che uccidono, non
sono nemmeno piloti che bombardano a diverse miglia un suolo che non
vedono quasi, questi militanti sono in mezzo a noi, sacrificano
epicamente la loro vita, si macchiano di sangue come gli opliti greci,
combattono e trasformano il loro corpo in una deflagrazione. Ebbene,
loro odiano, dunque, sono. Odiano per un appetito di popolarità, odiano
per avere un bonifico che riscatti le sorti della loro famiglia, per la
quale, se non sono falliti, non sono nemmeno vincenti e certamente
odiano anche per noi, che non siamo più capaci di odiare.
Non possiamo accusare l’intero Islam di una colpa metafisica e
indistinta, ma ci sono segni di responsabilità nei silenzi, nell’apatia
e nell’indifferenza, perfino nel nostro non odiare. Siamo bersagli
facili, da colpire durante un giro nella promenade, mentre siamo in un
mall, nel corso di una funzione religiosa, possiamo essere uccisi nel
nostro piacere di costruire, per via di un piacere avversario, quello di
distruggere. Si vuole incrinare il diritto al libero pensiero,
all’espressione, al viaggio come conoscenza, ad amare culture diverse
per includere le somiglianze, si vuole distruggere il diritto a credere
in un Dio, che non è Allah, o il diritto a credere solo nell’uomo.
L’allarme per le crepe, che possono aprire a catastrofi enormi,
sono tragicamente nell’aria, basti guardare alla debolezza europea,
impennata con la Brexit, alle purghe di Erdogan, in Turchia, che
sembrano studiate a tavolino per creare, in seno all’Europa, una
polveriera islamica irredentista. Se pensiamo poi, alla fiducia in Trump
negli Usa e a Hillary Clinton molto sicura di vincere, ma poco
rappresentativa, rispetto alle tensioni razziali del suo paese, niente
fa stare tranquilli. Si sente la debolezza del nostro antropocentrismo,
a discapito della teocrazia islamica, che fissa Dio e politica, in un
sodalizio di rigida autorità.
Cito ancora l’incipit di Anders:
_ Lei non odia niente?
_ Certo_ rispose Zenone. _ Qualcosa sì.
_ E cosa?
_ L’odiare.
_ E niente altro?
_ Certo. Qualcos’altro.
_ E cosa?
_ L’essere, comunque, costretto a odiare.
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scrivete a claudia erao
claudia.maga@alice.it
Claudia Erao è il nome letterario di Claudia Maga. Nata a Broni,
a Pavia, Italia, nel 1977, ha seguito una formazione eclettica.
L'istruzione superiore è presso il liceo artistico G. M.
Colombini Piacenza, dove, l’ultimo anno, durante uno studio
della figura femminile approfondisce il dipinto Ritratto
di signora di
Gustav Klimt.
È
il 1996, quando si dimostra che il quadro di Gustav Klimt, della
Galleria Ricci Oddi di Piacenza, è la modifica di una versione
precedente dello stesso autore. La scoperta artistica
del Klimtritrovato assume un valore nazionale e
internazionale. Segna l’inizio della passione per la storia
dell’arte.
Verso i 19 anni inizia a leggere Yourcenar. Studia scultura
del marmo in uno studio a Pietrasanta, Lucca, e conosce lo
scultore giapponese Ztuche Takeschi.
Claudia Erao, dopo gli studi liceali, studia presso l'Università
di Pavia, nel 2005 si laurea in Lettere Moderne con indirizzo
artistico, consegue la lode.
Viaggia, in Grecia, Libia, in Inghilterra. In seguito a due
corsi di specializzazione per l'insegnamento 2007-2009, insegna
nelle scuole medie della provincia di Pavia, attualmente è
insegnante a Broni. Viaggia in Vietnam, comincia il libro L’acqua dei
diamanti.
Nel 2011, intraprende un lungo viaggio negli Stati Uniti, si
reca a visitare la casa di Yourcenar a Petite
Plaisance, nel Maine,nell’isola di Mount Desert, dove conosce la
direttrice Joan Howard. Diventa membro speciale del Centro
Internazionale Antinoo- Yourcenar di Roma, stringe amicizia
con fondatrice del Centro: Laura Monachesi.
Nel 2014, pubblica il suo primo libro, L’acqua
dei diamanti, con
l’editore Fontana di Trevi di Roma. Il libro di formazione è un
omaggio narrativo a cinque maestri dell'autrice, in un lavoro
narrativo di mimesi e interpretazione. Yourcenar, Buonarroti,
Wiesenthal, Seneca e Merini sono i maestri scandagliati nella
loro eredità. Nello stesso anno esce il dialogo immaginario con
Marguerite Yourcenar tradotto in francese, edito nel n. 34
della prestigiosa rivista della Società Internazionale di Studi
Youcenariani, SIEY,
a cui convergono i maggiori studiosi e appassionati di Yourcenar
del mondo.
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